Intervista

Il mestiere di raccontare (anche la guerra): intervista a Lorenzo Cremonesi

Nelle giornate del 30 e del 31 maggio ha avuto luogo Impossibile 2024, l’evento di Save the Children finalizzato a promuovere un dialogo tra giovani, rappresentanti delle istituzioni, del mondo della cultura, dell’impresa e del terzo settore.

Il workshop intitolato I bambini e il mondo dell’informazione: spettatori o protagonisti è stato occasione di confronto sulla condizione deɜ bambinɜ in Italia e nel mondo come lente attraverso la quale leggere i fenomeni sociali, le trasformazioni politiche ed economiche e i grandi eventi storici. Si è inoltre discusso sulle modalità con le quali i media possono ascoltare e amplificare la voce deɜ bambinɜ e deɜ giovani, nonché sulle strategie attraverso le quali i media possono costruire una relazione di fiducia con le nuove generazioni, contribuire alla loro capacità di analizzare la realtà e costruirsi una libera opinione.

Al workshop hanno partecipato Enrico Bellavia (direttore dell’Espresso), Luigi Contu (direttore di ANSA), Lorenzo Cremonesi (inviato del Corriere della Sera), Marco Girardo (direttore di Avvenire), Francesca Capovani (vice caporedattrice Esteri del TG1), Francesca Paci (vice caporedattrice de La Stampa), Asya Turchi (redattrice del Movimento Giovani) e Francesco Zaffarano (head of content di Will Media).

Al termine del workshop abbiamo incontrato Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme, a partire dal 1991 ha avuto modo di andare più volte in Iraq e, da ultimo, ha seguito da vicino la guerra di aggressione della Federazione russa nei confronti dell’Ucraina.

In una società ormai dominata dai social, un’immagine può avere un impatto più forte rispetto alla carta stampata?

Questa è una domanda importantissima e cercherò di dare una risposta che sia all’altezza. È vero, siamo una società dominata dalle immagini. Questo fenomeno è esploso negli ultimi venti anni. Prima c’era la televisione ma adesso chiunque può essere un giornalista con il proprio cellulare, facendo un video e diventando un testimone. Essendo anche io un figlio della televisione, pensavo che la verità fosse l’immagine. Invece ho ridato molta forza alla parola (scritta o parlata), alla descrizione verbale, in varie occasioni.

La prima volta è stata la strage di Timișoara (al momento della rivolta popolare contro Ceaușescu, in Romania): i manifestanti, in quel caso, avevano accusato la polizia di aver ucciso centinaia di persone mostrando delle foto. Tutti i giornalisti (sul posto e non) diffusero questa notizia. Venne fuori, dopo la caduta del regime, che i morti furono all’incirca quindici-venti.

Un altro esempio riguarda la Prima Guerra del Golfo (1990), quando Hussein invase il Kuwait. Hussein lanciò dei missili contro Israele per indurlo ad entrare in guerra e rompere il fronte anti-Saddam. Questi missili, molto obsoleti, non fecero vittime. Un solo missile colpì una casa di Tel Aviv, causando due o tre morti. Alcuni giornalisti fecero una foto alla casa distrutta, tagliando l’ambiente circostante, e scrissero “Tel Aviv in rovina”, quando in realtà la vita intorno alla casa continuò come sempre (bar e ristoranti aperti, persone al mare, traffico regolare). In realtà quell’immagine, se raccontata nel contesto, dava il senso del fallimento di Hussein che aveva cercato di coinvolgere Israele creando una strage per far sì che Israele reagisse e si rompesse il fronte arabo anti-Saddam. Accade esattamente l’opposto. Questa cosa non si poteva vedere ma solo raccontare.

Quindi l’importanza di mettere nel contesto e fare del giornalismo una elaborazione intellettuale basata sulla conoscenza è fondamentale e non è vero che una immagine è più vera di un racconto.

È questa la sfida del giornalismo: il giornalista deve dimostrare di esserci e di conoscere.

È possibile, per un giornalista, rimanere imparziali nel racconto?

Un conto è essere un giornalista e un conto è essere un militante. Credo che si debba sempre cercare di capire le ragioni degli altri. Per me il giornalista perfetto, per quanto possibile, è quello che parla sia con i rossi che con i neri, quindi cercare di raccontare le ragioni delle due parti. Ma ad un certo punto, soprattutto quando si opera per molto tempo su un’area, ci si fa un’opinione. Tutti noi abbiamo dei pregiudizi ma è normale. Anzi, bisogna avere un’idea. Noi giornalisti possiamo cambiare idea, dobbiamo cambiare idea. Non mi fido dei giornalisti che partono con un’idea e cercano sempre dei fatti che puntellino la loro idea; a questo punto sei un giornalista o sei un propagandista? Questo è il primo aspetto.

In secondo luogo, essere giornalisti aiuta e dona una sorta di illusione di immortalità, per cui è come se si partecipasse agli eventi “da lontano” solo per assistere e raccontare. Questo modo di pensare aiuta psicologicamente. Dopodiché c’è la sofferenza degli altri. Oggi sono molto attento alla sofferenza dei bambini e degli anziani. In Ucraina mi hanno molto commosso gli anziani che hanno perso la casa, tutto quello che avevano, e che si rifiutano di andare via perché significherebbe lasciare tutta la loro vita. Bisogna raccontare queste storie e far vedere la sofferenza di queste persone.

È difficile tornare alla vita quotidiana al termine di una missione?

Lo è. Sono stato quattro anni in Iraq durante la guerra e ho avuto delle paure terribili. Il disturbo da stress post traumatico è un vero problema e io ho sempre rifiutato di riconoscerlo. Ho compreso di soffrirne quando mi è stato fatto notare da persone a me vicine. Il post traumatic stress vuol dire spaventarsi per dei rumori, non riuscire a dormire, avere uno stato di ansia, le mani che tremano e sudano. Si è coinvolti ma io credo che l’essere coinvolti faccia parte del nostro mestiere.