Intervista

Una scuola per tutt*: intervista a Rahma Nour

"La scuola non ha bisogno di altri aggettivi: se è scuola, è una scuola che accoglie, punto e basta"

La nostra Lucrezia Agosta ha intervistato Rahma Nour: nata a Mogadiscio, naturalizzata italiana, donna, nera e persona con disabilità, insegna nella scuola Primaria statale da molti anni. Scrive poesie e racconti.

Rahma Nur è una scrittrice e poetessa italiana, nata a Mogadiscio. Durante Impossibile, la biennale dei diritti dell’infanzia di Save the Children ha parlato del suo rapporto con l’inclusione come insegnante di scuola primaria in occasione del workshop Gli spazi e i tempi dell’inclusione: il percorso di crescita dei minori migranti in Italia, volto a presentare pratiche positive e a proporre misure per il superamento di quegli ostacoli che impediscono l’appartenenza deɜ minori migranti alla collettività. Prima del suo intervento, ho avuto l’opportunità di ascoltare in anteprima le sue esperienze da donna, nera, e disabile che vive e insegna in Italia, e le sue opinioni su una scuola davvero per tutt*.

Rahma, tu sei arrivata in Italia nel 1969, quando avevi sei anni. Sei stata anche tu una minore migrante immersa nel sistema scolastico italiano, e adesso sei un’insegnante che si trova ad avere a che fare con bambini e bambine migranti nel sistema scolastico attuale. Collegandoci al tema del workshop e parlando di tempi di inclusione, ritieni che in questi cinquant’anni ci siano stati dei cambiamenti nel percorso di crescita dei minori e delle minori migranti in Italia, o c’è bisogno di più tempo?

In cinquant’anni sono cambiate tantissime cose, però il problema dell’inclusione e dell’accoglienza dei bambini migranti è un problema che è sorto molto dopo, molto dopo il periodo in cui sono arrivata io, perché a quel tempo non c’era questa grande migrazione. Ad esempio, era una migrazione legata al rapporto che c’era tra l’Italia e la Somalia, perché era un Paese colonizzato, quindi c’era un rapporto di lavoro, un rapporto di cooperazione, e così via. Dagli anni Novanta in poi possiamo parlare, invece, di una forte migrazione dai paesi dell’Africa, dell’Asia, e anche dell’America, verso l’Europa e l’Italia. È da lì che è sorto proprio il problema di provvedere all’accoglienza di maggiori bambini che provenivano da fuori. Quindi, passi enormi sono stati fatti. Passi grandi bisogna ancora farne.

Parlando invece dell’altro tema del workshop, che sono gli spazi di inclusione, secondo te ci sono delle differenze tra gli spazi di quando eri bambina, e quelli di adesso? Si stanno allargando?

Non so cosa intendete con “spazi di inclusione”. Se parliamo di scuola in generale, di creare dei momenti di confronto tra bambini di diversa origine e bambini autoctoni, un po’ diventa naturale relazionarsi per i bambini. Quando si parla di “spazi di inclusione” a me sembra quasi di escludere, invece che di includere, perché vuol dire che ci si sta focalizzando su qualcosa che è “altro”, quando secondo me è “tutt’uno”.

In che modo, secondo te, il percorso di una bambina migrante in Italia può essere diverso da quello di un bambino migrante?

Le differenze sono legate al genere, e poi anche alla storia e alla cultura del bambino o della bambina. Se penso, per esempio, a bambini che provengono da un Paese come il Bangladesh o l’Afghanistan, Paesi come anche la Somalia, dove comunque è nato un estremismo religioso e c’è un modo di pensare molto chiuso, queste bambine sono relegate in un certo modo di agire e di vivere, mentre i bambini sono un po’ più liberi. Anche il fatto di poter essere davvero sé stessi diventa complicato per loro. Per esempio, se un ragazzo o una ragazza hanno un orientamento sessuale diverso, credo che sia una sofferenza ancora maggiore di quella che potrebbero invece soffrire un ragazzo o una ragazza nativi italiani. Lì diventa un grosso problema.

Tornando alla tua esperienza personale, qual è stato l’ostacolo più grande che senti di aver dovuto superare una volta arrivata in Italia?

L’ostacolo più grande è stato quello di essere accettata per quello che sono, quindi nella mia intersezionalità di persona che ha un’origine diversa, ma anche di una persona con disabilità. A volte, il fatto di essere stata una bambina con disabilità ha condizionato gli altri nel focalizzare soltanto la mia disabilità, e quindi dire “Povera bambina, più di questo non può fare”, quando non è così, e la prova ne è quella che sono diventata oggi. Questa è stata la difficoltà maggiore, legata al fatto di essere una persona nera: essere anche una persona con disabilità mi ha creato tantissime difficoltà per essere accettata come una persona che può fare. Mia madre credeva in me, qualche professore e qualche insegnante credeva nelle mie capacità, ma altri mi demonizzavano: “Povera bambina, è nera ed è pure disabile, più di quello cosa può fare?”.

Pensando alla tua esperienza attuale come insegnante, cosa significa per te creare una scuola inclusiva? Può essere motivo di esclusione, come dicevi prima?

Quest’ultimo pensiero che hai espresso a volte è capitato. Nel senso, che si è talmente concentrati sull’inclusione da perdere di vista la realtà, quello che è la scuola. Ho sempre detto, e continuo a dirlo, che la scuola non ha bisogno di altri aggettivi: se è scuola, è una scuola che accoglie, punto e basta. Aggiungere altri aggettivi, come “inclusiva”, vuol dire negare quello che è.

In un’intervista hai detto che bisogna ascoltare la diversità. In che modo ascolti e integri questa diversità durante le tue lezioni?

Non è facilissimo. Ascoltare le varie diversità dei bambini e delle bambine che ho non è sempre semplice, perché, come tutti gli esseri umani, anche io ho i miei limiti e i miei pregiudizi. Tento sempre di lavorare molto su me stessa, cerco sempre di riflettere sulle parole che dico e sulle azioni che faccio, e alla fine “mi schiaffeggio da sola”, perché mi dispiace se ferisco un bambino o una bambina per qualcosa che ho detto. Se io devo insegnare l’umiltà e il rispetto reciproco, devo essere io per prima a mettermi in gioco. Quindi, ho imparato a chiedere scusa ai bambini, che non è una cosa molto semplice da adulti quali siamo. Non è una cosa semplice nemmeno da insegnanti, perché mi rendo conto, anche dai racconti di mia figlia, che quando lei è nel giusto l’insegnante non le chiede mai scusa. Io ho imparato negli anni, prima ancora di avere mia figlia, a chiedere scusa, perché è importante. Essere insegnanti vuol dire anche saper chiedere scusa al bambino quando si è noi nel torto.

Che ruolo hanno avuto la scrittura e la poesia nel tuo percorso di crescita, sia a livello personale che professionale?

Il lavoro di scrittura per moltissimi anni è stata una cosa mia, personale e privata. Non l’ho mai condiviso con nessuno, se non una cerchia ristretta di persone. In un certo momento mi sono chiesta: “Io ho tutte queste poesie, perché devono rimanere a me?”; e soprattutto sono uscita fuori con la poesia quando gli eventi razzisti sono avvenuti nel nostro Paese. Lì ho sentito proprio l’urgenza di condividere la mia poesia, e denunciare quello che stava accadendo in Italia. Questo mi ha aiutato ad approfondire il mio lavoro di poetessa e a cercare di migliorarmi, perché la poesia sì, è bella se scritta di getto e mostra quello che sei, però è anche importante lavorarci su per imparare. Anche perché insegno a scrivere poesie, insegno a scrivere testi, però poi non mettevo in pratica quello che insegnavo. Inoltre, mi ha aperto un mondo molto vasto, che non è legato solo alla cultura ma anche alla scuola, alla formazione di docenti. Mi ha aiutato a migliorare come persona e come professionista nella scuola.

Hai detto che la scrittura e la poesia ti hanno aiutata ad aprire un mondo. Pensi che possano essere degli strumenti per favorire l’inclusione?

Sì, senza dubbio. Il fatto di scrivere e di aver pubblicato, per esempio, mi ha aiutato a conoscere tantissimi giovani, e ad aiutarli in un percorso di apertura di loro stessi. Se io sono riuscita a trovare nella poesia sollievo, ma anche coraggio di esprimermi, è perché è uno strumento validissimo per aiutare i ragazzi e le ragazze ad aprirsi e a conoscere quello che gli è intorno, non solo quello che gli è interno.

Tu adesso ti senti inclusa, considerando tutte le intersezionalità di cui mi hai parlato?

Io mi sento parte di questo mondo e di questa realtà perché sono Rahma, però essere inclusa al 100% ancora no, perché il mondo attorno a noi ha ancora molto da imparare per includere tutti nelle varie intersezioni. 

Scarica la pubblicazione di Save the Children: Manifesto in 10 punti per l’inclusione di minorenni e giovani migranti


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